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Francesco Mariani

Nel suo essere «prete giramondo», il piemontese Oliviero Ferro, classe 1951, saveriano da oltre cinquant’anni, ha stabilito un punto di fissazione a Cagliari, nella casa dell’ordine missionario fondato nel 1895 dal vescovo di Parma San Guido Maria Conforti. Il senso della missione dei saveriani è principalmente quello di stare con gli ultimi. Nel percorso di studio e nell’esperienza sacerdotale padre Oliviero è stato a Vicenza, Salerno, Taranto, Zelarino-Mestre, soprattutto per 13 anni in Africa, nella Repubblica Democratica del Congo e in Camerun. Da prete ha svolto anche diverse mansioni, guida scout, arbitro di calcio, portatore di medicine insieme alla parola di Dio. È giornalista pubblicista. Da Cagliari, dove collabora con il settimanale e la radio diocesana, segue l’animazione missionaria con religiosi e laici/e. Da subito, da quando è venuto per la prima volta, è stato pervaso dal mal di Sardegna. Quando era a Macomer, sede storica della formazione saveriana, faceva parte di un gruppo archeologico e, dice in una intervista fattagli da Eugenio Lombardo, «ho aiutato i ragazzi del nostro Seminario minore ad approfondire la storia sarda».
Banco di prova di questa passione, di questo suo essere e sentirsi sardo, sono due racconti che Oliviero mi ha fatto avere da oltre un anno, dopo un incontro di ex che furono saveriani, tra Macomer e Cagliari tra fine anni Cinquanta e metà dei Sessanta.

I racconti sono Il sughereto rinato e La sentinella nuragica, entrambi in forma di apologo, una scrittura che attraversa il sognare dei sardi, il loro immaginario, i luoghi simbolo.
Nel primo c’è un io narrante in cerca di tracce di un passato lontano. «Stavo arrivando vicino a “Is ogus de monti” (le domus de janas di Monastir), quando sento qualcuno che mi chiama. Mi avvicino e una simpatica vecchietta mi fa cenno di entrare. Mi siedo da qualche parte, mi guarda negli occhi. I suoi erano di un azzurro spento. Chissà quanti anni aveva. Mi sorride e mi chiede se ho sete. Faceva caldo e avevo dimenticato la bottiglietta dell’acqua. Entra nella sua casetta e torna con un bicchiere e una bottiglietta di un colore azzurro come i suoi occhi. Mi versa il liquido nel bicchiere e mi invita a bere. Era dolce e rinfrescante. I miei occhi cominciano a chiudersi e lei ricomincia “C’era una volta…”». Il racconto della vecchietta è appunto quello del Sughereto rinatosulle ceneri delle piante minacciate dal fuoco e distrutte dalle incursioni dei nemici del villaggio. Le nuove piante le portano i giovani mandati in missione dal capo tribù, purificati prima di partire con l’acqua del pozzo sacro accosto alla tomba dell’eroe e di altri giganti. È quell’acqua miracolosa che infonde vigore ai giovani per affrontare un lungo e arduo cammino, la stessa acqua che la vecchia jana, la raccontatrice, ha dato al narratore prima che si immergesse nel sogno, la stessa acqua che se lui vorrà potrà continuare a bere quando verrà a sentire altri racconti. La capacità e la forza del sogno è quanto identifica la volontà di appartenenza di Oliviero Ferro alla Sardegna, alla sua storia, alle sue leggende, ai suoi miti. È una maniera di narrare che come in alcuni classici della letteratura e dell’arte riesce a far diventare prospettiva il tempo antico, tutto tranne che archeologia del residuo.
Il secondo racconto così inizia: «Ormai era diventata una sua abitudine, verso sera, di salire in cima al nuraghe per fare la sentinella. Nessuno glielo aveva imposto, ma lo faceva volentieri. Era il suo contributo alla vita del villaggio. Diceva sempre che se ognuno fa qualcosa, tutto il villaggio sarà contento. E così, anche in quella sera di marzo, era salito su per la ripida scala che girava dentro il nuraghe, ormai un po’ diroccato, per arrivare al suo posto. Aveva indosso il suo giubbotto nero, una berretta per non prendere freddo e nella sua bisaccia un po’ di pane, formaggio e una fiaschetta di vino. Aveva un coltellino e qualche ramo da intagliare per far passare il tempo. Depose tutto in un angolo e cominciò a guardare verso l’orizzonte». C’è sempre la prospettiva, lo sguardo in avanti, a reggere la struttura della narrazione. La cima del nuraghe è il luogo dove Bastiano, questo il nome della sentinella, resterà per sempre, da vivo e da morto. Anche in questo racconto tutto viene riportato alla dimensione del sogno che vede il succedersi degli eventi, in diverse epoche storiche, che hanno la preparazione di una classica festa come centro. Bastiano sente arrivare alle sue orecchie suono di launeddas, avverte al palato, come se li stesse davvero gustando, altri sapori insieme a quelli del pane e del formaggio, del vino: dolci, verdure, carne cotta alla brace e altre leccornie preparate dalle donne. Vede comparirgli davanti un guerriero in spada e scudo, dai grandi occhi roteanti. Il guerriero parla un antico, strano linguaggio. Come altre comparse ha alle spalle il mare dove si immerge il sole calante prima che la luna salga alta nel cielo a illuminare la notte. Potrebbero essere tutte convenzioni se non fosse che Oliviero Ferro, piemontese di Borgosesia, si identifica appieno nel sogno sardo dell’età dell’oro, chi sa se mai veramente esistita, prima delle dominazioni. Un narrare piano, compartecipe sardo, insieme pretale e nel divenire verso un mondo che, dice il senso della missione, bisogna sempre cercare di rendere migliore.