La madre dell’ucciso e Sa tia de filare
Due donne idealmente una di fronte all’altra, narratrici e presaghe. Non vogliono più guerra
di Natalino Piras
Francesco Ciusa, La madre dell’ucciso (1906)
6' di lettura
21 Marzo 2025

Una scultura bronzea e una poesia, capaci ancora oggi di destare profonda emozione, mettere sull’avviso per evitare dolore e lutto, se verrà la guerra. La madre dell’ucciso è opera di Francesco Ciusa (Nuoro 2 luglio 1883 – Cagliari 26 febbraio 1949), realizzata nel 1906, premiata alla Biennale d’Arte di Venezia nel 1907. Destò forte scalpore e ammirazione: l’arte è da sempre la più completa rappresentazione delle esperienze umane, il bene e il male, quando è vera arte. Della scultura esistono cinque versioni. Una è alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna a Roma. La seconda fu eseguita per un museo londinese. La terza è alla Galleria d’Arte Moderna a Palermo. Le ultime due sono state realizzate sul calco di gesso originale una, nel 1983, per il Palazzo Civico di Cagliari e l’altra, nel 1985, per la tomba dell’artista dentro la chiesa di San Carlo a Nuoro. 

Sa tia de filare è una delle più belle poesie, in limba sarda logudoresa, di Antioco Casula, Montanaru (Desulo 14 novembre 1878 – 3 marzo 1957). Ne esistono diverse edizioni tra fogli sparsi e raccolta in volume, tra scrittura e canto, anche in internet. Una delle edizioni più folgoranti sta in apertura di un libretto di oltre cent’anni fa, scritto plurilingue in italiano e a fronte logudorese, campidanese, gallurese, sassarese: Sardegna nostra, libro per gli esercizi di traduzione dal dialetto sardo, Milano, L. Trevisini, 1924. È il terzo volume, «in conformità», avverte una nota «dei programmi ottobre 1923 approvato dalla commissione ministeriale». Ne sono autori due lulesi, Luigi Bianco e Salvatore Deledda, come Montanaru maestri di scuola. Oltre tutti gli intenti didattici di regime, siamo agli inizi dell’era fascista, due anni dopo la Marcia su Roma, Sardegna Nostra è uno di quei preziosi libretti, che raccolgono i saperi della nostra Isola, storia e storie, miti e leggende, prose e poesie, contos, modi di dire, proverbi, lunari da zaravallu e tanto altro. Sa tia de filare, datata 1923, apre il libretto. 

La idia pesada, onz’impuddile,/Pro filare che sempre tottu die,/Senza pasarefinz’a su merie,/Imbenugiada subra su giannile.//E non ridiat maicalchi orta/Cantaiatma fini tristos cantos/Med’antigos, pienos de piantos,/O attitidos fin de zente morta.//No aiat parentes e nisciunu/Li faghiat imperios o fogu;/E la idia continu in cussu logu/Dolorosu, filende pro donz’unu//Chi li daiat chivalzu pr’unu tantu/De filonzu. E issa filaìada/Cun sas manos venosas, e giughiada/In sos ojos terribile piantu//E unu luttu de seculos in fronte./Non teniat parentes né amigu;/Fid’altaniedda e tristache antigu/Ilighe solitariu de monte.//Ma, chie fidiNon lu poto ischire,/Né mai mi so postu a dimandare;/La giamaìan sa tia de filare,/E folzis fit sa tia de patire./Una die pius a su giannile//Non besseitserrada fit sa porta./Sa tia de filare si fit morta,/Filendesenza fogu in su foghile!

Figurativamente, pur senza esserlo fisicamente mai state le due donne stanno una di fronte all’altra, si interano tra di loro, nelle differenze di postura, seduta accoccolata, i piedi scalzi una, altaniedda e trista l’altra. Il silenzio, la compressione de su mutimene che si rivela allo sguardo e la parola che si scioglie, si fonde nel canto delle prefiche: s’attitu. Sono di segno universale, sardu, pretale che allarga a molte altre storie e culture. La madre dell’ucciso e Sa tia de filare diventano la stessa persona. Grande il senso della prospettiva e della metafora. Istituiscono termine di paragone. Per dire di esempi alti, altissimi, sono Le Pietà michelangiolesche e la Donna del Paradiso/lo tuo Figliolo è priso di Jacopone da Todi, in sardo Mama, Mamas de dolore. Ma pure janas che tessono e cantano la nostra sorte/la nostra morte, parche, segni de custa inoke est sa terrarestu predosu de tottu s’ikunkuassu de prima de su dilluviu recita il grande poeta nuorese Antonio Mura: mamas/fazzas de crapas dolenteschi creschen sor fizzos/pro sa morte in frore

La madre dell’ucciso e Sa tia de filare le ritroviamo in molti altrove. Sono la madre che tormenta lo scalzo Diegu per sapere da lui chi è che ha ucciso il figlio in un racconto magnifico di Bachisio Zizi. Oppure, Jubannedda Piccu, una fotografia in bianco/nero, la madre del partigiano Mignolo alla notizia della morte del figlio. Stessa postura del capolavoro di Ciusa. In un libro autobiografico dell’ergastolano, fine pena mai, Mario Trudu, morto di carcere qualche anno fa c’è, coetanea del narratore thiu Pepe ‘Onanu che combatté nella guerra del ’15-18, un campo di sangue senza fine, la figura di nonna Raffaella, arzanese, donna di ferro, identica, una identità indelebile, a Sa tia de filare di Montanaru. E tante altre. Le due figure sono presenza e immanenti nel capolavoro di Salvatore Cambosu Miele amaro (1954). Le due icone rese materia viva sono nel cuore di tenebra nostro contemporaneo. Continuano a essere poetanti, narratrici, tessitores di storia, e presaghe. Non vogliono più guerra. Dicono, vorrebbero dire come dice il Qohelet, il libro dell’Ecclesiaste: «Goditi, o giovane, la giovinezza, e ti sia lieto il cuore nei giorni di tua gioventù, strappa dal tuo corpo il dolore, perché capelli neri e giovinezza sono un soffio». 

Bisogna saperle comprendere, saperle contemplare, starle a sentire. Sono l’antico che avverte il nuovo.

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