L’ulivo nutre vita e speranze
Per una antropologia dell’olio/3. I segni della sacralità che ci appartengono
di Natalino Piras
Frantoio dell'olio in un presepe artigianale
6' di lettura
24 Dicembre 2022

Il finale del nostro percorso è una cantata natalizia. I sentieri dell’olio sono a volte piani, altre tortuosi, altre ancora labirintici, però con un centro a cui si ritorna e da cui nuovamente si diparte.

Una volta, a Livorno, recitai insieme ad Alessandro Arrabito e altre e altri che facevano da voce narrante e da coro il Lamento per Ignazio di Federico Garcia Lorca, canto universale per il torero, amico del poeta, Ignacio Sánchez Mejias, dal toro colpito a morte nell’arena. A las cinco de la tarde.  

A Livorno, eravamo ai Bottini dell’Olio, in via Caprera, non molto lontano dalla Fortezza Medicea, affacciata sul mare, luogo simbolo della città. I Bottini, deposito dell’olio di oliva, sono stati fondati a metà Settecento e smessa la loro funzione di magazzino sono adesso museo, biblioteca, luogo di recita. È qui che conservano la caratteristica di una struttura interamente in pietra, le vasche, i camminamenti che avevano sbocchi a rialzo oppure aderenti al suolo da cui usciva l’olio raccolto in recipienti di diversa misura. Il porto era là, a tiro di carro, navi e bastimenti pronti a essere caricati.

Per noi teatranti, i Bottini sono stati un luogo adattassimo anche perché il Lamento di Garcia Lorca è canto di alma mater mediterranea, l’olivo e gli uliveti come linea poetante. Ci sono diversi richiami sottesi nel testo lorchiano che chiude Alma ausente, anima assente, con il distico: «Yo canto su elegancia con palabras que gimen/y recuerdo una brisa triste por los olivos.» Brisa è la brezza. Che soffia e soffiava negli uliveti della Spagna del tempo di Garcia Lorca, alla vigilia della guerra civile (1936-1939) e ancora continua in questo tempo, in molti uliveti di antiche terre tra montagna e mare, in annate che si preannunciano di buon raccolto. Noi sardi siamo appieno nel contesto.

La sacralità dell’olio sta in questi segni che appartengono prima di tutto alla messa a dimora, alla cura e alla salvaguardia degli alberi, gli olivi, che in tempo di maggio iniziano a mostrare fioritura. Ci sono molto lavoro e fatica. Nell’alimentazione di chi lavora la terra, braccianti, tzorronateris e potatori, le olive sono pasto insieme fondamentale e di accompagnamento: pane, casu unu punzu de olia. Se c’era anche il vino. S’olia, niedda, conservata sotto sale, ma vinas de cufettu, messa in qualche contenitore dentro s’istacca, era un di più oppure sostituiva sa sardizzasa tamatasa chipudda. Erano la stessa qualità di olive da cui sarebbe poi venuto l’olio che ardeva nelle lampade votive delle chiese dentro gli abitati, i nostri paesi e le città, ma anche e soprattutto nelle chiese e nei santuari di campagna. Uno per tutti Babbu Mannu di Dure, zona della campagna bittese – Dure fu un villaggio medievale reso spopolato dalla peste di fine Trecento, al tempo ancora dei giudici di Arborea – ricca di orti, vigne e oliveti. A Babbu Mannu la fiammella delle lampade votive, perennemente accese, sono come la brisa del canto lorchiano. Illuminano la scritta riquadrata dentro una cornice floreale, lettere maiuscole su sfondo grigio antico: Initium sapientiae timor Domini, dal salmo 111 della BibbiaVecchio Testamento. Principio della sapienza è il timore del Signore.

Sintomatico poi, ripartendo dal Lamento per Ignazio come questo sia riverberato in un magnifico testo in limba sarda, variante lulese: Jeo no’ ippo torero. È opera di Antonino Mura Ena (1908-1994) nipote di Giovanni Antonio Mura, sacerdote e grande romanziere, autore tra gli altri della Tanca fiorita (1934). In Jeo no’ ippo torero, Mura Ena immagina che un grande toreador si presenti al ragazzo Juanne Arina, nel delirio dell’agonia, incornato da un bue in sa jacca ‘e s’ortu. E lo inviti così come fa Garcia Lorca per Ignazio a salire con lui a los toros celestesS’ortu dell’agonia del ragazzo lulese e la tanca fiorita di Antonio Mura sono luoghi immersi dentro distese di oliveti a coltivo e altri lasciati a crescita selvaggia, a ridosso di querce secolari e muri a secco, segni indelebili della nostra storia di sardi che l’olivo abbiamo imparato a coltivare da sempre: dal tempo dei nostri miti fondanti, l’arrivo di Jolao figlio di Ercole ma pure il passaggio di Ulisse di ritorno dalla guerra di Troia. Il segreto di Ulisse che solo lui e sua moglie Penelope conoscono, è che il letto nuziale il re di Itaca lo ha ricavato da un olivo secolare, senza sradicarlo. Anche questi sono segni della sacralità dell’olio. Ci appartengono. Dalla montagna al mare. Sono storia antica e contemporanea, racconto circolare e dati da immettere sul mercato. «Dell’olio», dice anche Sandro Chisu, titolare del frantoio artigiano che fu di suo padre a Gherghetenore in Orosei, a due passi da Osalla, «non si butta via niente». Verità più assoluta che relativa. Stabilisce continuità nella linea che va dal mito alla storia, aggiungendo interpretazioni antropologiche, scritture letterarie, visioni e finizioni dell’arte e di tutte le loro capacità di rappresentazione. L’olio continua a nutrire la vita e la speranza oltre che alimentare le fiammelle votive delle nostre chiese campestri e santuari. Adesso, a Natale, c’è il Bambino, su Nenneddu. Per poter continuare la sua vicenda storica, in custa terra povera e oscurada, cui come sardi e come cittadini del mondo apparteniamo, anche il Bambino, elemento di salvezza, dovrà essere unto con l’olio, indispensabile componente del sacro.

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