Sant’Elia, San Marco e altri santi pioggiaioli
Il paese portatile. I riti e i miti della pioggia sono parte della nostra storia
di Natalino Piras
Il profeta Elia, icona russa (13mo/14mo secolo), Tretyakov Gallery, Mosca
6' di lettura
30 Gennaio 2025

«Comente l’as minettadu, non pioet in tres annos, Israele est in affannos, Acabu est arrabbiadu». È un passaggio dei gosos di Sant’Elia, profeta dell’Antico Testamento venerato come Santo dalla Chiesa cattolica, la cui vicenda è narrata nei due libri dei Re. Quando ero bambino sentivo parlare, in tono di racconto lontano ma pure come constatazione di calamità presente, de sa siccagna de su re Acabu. È per la sua iniquità – aver ceduto al volere della moglie Gezabele che impone al popolo l’adorazione del dio fenicio Baal – che in Israele non piove da tre anni. La salvezza, la pioggia benedetta, verrà per intercessione di Elia, da lì la fama di pioggiaiolo per antonomasia. È lui, fedele e illuminato servo del Signore, proveniente dalla terra di Galaad, che combatterà contro i nemici del popolo eletto, che confuterà e ucciderà i falsi profeti. 

Qualche tempo fa siamo stati in pellegrinaggio davanti alla tomba vuota di Elia, nella chiesa del Monte Carmelo ad Haifa, sopra Nazareth. Mi sono tornati in mente allora diversi racconti su Sant’Elia la cui chiesa sta a Bitti, il mio paese, sopra uno dei colli che dominano la vallata. Sa Punta ‘e Sant’ Elia, luogo di antenne, di vedette antincendio, di novene e di pranzos collettivi, soprattutto memoria delle invocazioni al Santo per la pioggia, in tempi di perigliosa siccità come quello che stiamo attraversando, per evitarne cicliche ripetizioni. 

Raccontano di quando in tempi non così antichi la statua del Santo veniva portata giù dalla chiesetta e poi in processione sino a Su Comiteddu, poco sotto il Cantaro. Qui veniva immersa dentro una vasca mentre saliva dalla folla, voci diversificate che si facevano coro, la preghiera del «Dazzenos abba Segnore, ca si abba no nor dazzes, non bi creschet su laore». La pioggia saputa ricevere, saputa sfruttare è segno essenziale della civiltà pastorale e contadina. L’acqua male usata, i fiumi tombati portano invece catastrofe, producono ancora e sempre tempo di siccità.  

L’invocazione dell’acqua per la crescita del grano, per una buona messe, e altri frutti della terra, ha radici antiche, precristiane. La stessa invocazione, in toni forti, quasi di minaccia, veniva rivolta a Maimone, divinità nuragica della pioggia, anche lui di origine fenicia: «Est abba chi ti petimus e non purpas de voe!». Grido che da un paese allarga a tutti gli altri di un’Isola intera, comprende pure le città.  

I riti e i miti della pioggia sono dentro la nostra vicenda plurimillenaria. La storia delle acque in Sardegna è da sempre problema irrisolto. Per questo esistono da sempre i santi pioggiaioli. Oggi più di ieri questa nostra storia è paradigma di tante altre nel mondo, nella contemporaneità della catastrofe ecologica, dell’inquinamento globale, di acqua abusata, di pioggia negata, di popolazioni intere dove la mancanza d’acqua è causa forte di mortalità, tanti i bambini sacrificati a nuovi, mai spenti Baal. Neppure i più potenti pioggiaioli, da Santa Rosa da Lima a San Marco, diverse icone e statue di cattedrali e chiese di campagna, sembrano poterci fare niente. In diverse parti del mondo, Sardegna compresa, è ancora tempo di Mussingallone, personaggio folklorico, crudele dio e falso profeta. C’è un racconto che dice di come la biblica maledizione de sa siccagna de su re Acabu imperversasse da anni e anni a Bitudes, così riporto nei libri Il tradimento del mago e La Sardegna dei sortilegi. La gente invocava Dio e i santi. Niente. Il cielo non voleva saperne di aprirsi. Anche le acque del fiume nello sprofondo si erano ritirate. I paesani insistevano con litanie e processioni ma la terra ormai era una successione di fango duro, di spaccature e di crepe. Ricorsero allora a Mussingallone che così sentenziò: «I santi che invocate non valgono. So io, se voi mi incaricate, dove andare a trovarli i santi che valgono. Basta che voi mi paghiate il viaggio e mi portiate soldi, tanti soldi con cui comprare i veri santi pioggiaioli». Tale e quale la propaganda elettorale che, a proposito di acqua assente e rete idrica colabrodo tutta da rifare, continuiamo a sentire, dagli eletti e da quelli che ritenteranno la prossima volta. Tanto, in Sardegna, anche nella nostra Isola, nei nostri territori di acqua presente, pagata a caro prezzo senza che ne possiamo utilizzare e godere, il problema resta irrisolto. A Bitudes, per tornare al racconto, morivano di fame e di sete, erano sporchi e laceri. Ma si svenarono per mettere insieme una grossa somma e le provviste per il viaggio di Mussingallone. Che, partito per la missione dell’acqua, non arrivò mai alla meta prospettata al popolo. Dissipò tutto in festini e bagordi. Infine però, tottu pappatu e bitu, doveva ritornare. Si affidò alla buona sorte e questa ripagò il malvagio. Prima che lui entrasse nella terra dei creduloni iniziò a piovere, l’acqua venne giù a scrosci proprio mentre varcava la linea di confine del paese desolato. Lo fecero santo pure se, dicono, anche questa pioggia fu un’illusione, una falsa magia per quetare la rivolta che anche a Bitudes iniziava serpeggiare, a montare.  

Ogni tanto però, nella nostra storia, il vero prevale sul falso. Ricordo sul finire degli anni Cinquanta del secolo scorso un inverno e un inizio primavera senza acqua, senza pioggia. Siccagna. Missioni, processioni e rogazioni ad petendam pluviam. Niente. Al culmine della disperazione l’acqua arrivò il giorno di San Giorgio, patrono del paese, due giorni prima del 25 Aprile, festa di San Marco, ai tempi che la statua del Santo veniva portata in processione sino alle cascate di Ispagnoria, già campagna, per la benedizione degli orti. 

Un buon auspicio per il tempo a venire. 

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