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L’Ortobene
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08100 Nuoro
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Autorizzazione del Tribunale
di Nuoro n. 35/2017 V.G.
CRON. 107/2017 del 27/01/2017
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Direttore Responsabile:
Francesco Mariani
Un’estate, da ragazzi, eravamo a pesca, a manuta, in qualche tratto de su rivu ‘e Grestales, nella zona di Babbu Mannu, quanto fu l’antico villaggio di Dure. L’acqua era bassa, invasa da fili d’erba e rovi. Veniva difficile pur frugando con cura sotto le pietre sentire il guizzare di qualche trota o lo stare immobile delle anguille. Risalivamo Grestales un poco in ordinata fila un poco sparpagliati ma di pescato niente, solo qualche grori, avannotto, che ributtavamo in acqua. Subentrava sfiducia anche nei più ostinati e a un certo punto disse Bustianu: «Como, in carchi tuppale, b’azzappamus s’Antica ‘e Dure».
S’ Antica ‘e Dure. Era da bambino, che non la sentivo nominare, chiamata in causa a indicare una donna malvestita, in mucatore scuroso, dello stesso colore de sos puzzones murinos, uno spauracchio, unu mammoti. C’era chi la evocava in tono sarcastico, beffardo, comparando il fantasma con persone in carne e ossa, emarginate, reiette, tzia Rosina, male chinta, che entrava in chiesa all’ora della funzione serale, imprecando, ispossoriata, come invasata, facendo tintinnare un rosario di grani biancastri.
Chi sa da quando esisteva s’Antica. Dice la leggenda che Dure, villaggio abbandonato, adesso luogo di vigne e oliveti, la chiesa di Babbu Mannu al centro delle altre dedicate la più attigua a Santa Maria, poi Sant’Istevene, Santa Lukia e in alto Santu Joglieddu, fu distrutto dalla peste intorno al Quattrocento. Una più precisa collocazione storica mette la vicenda di questa distruzione nella seconda metà del XIV secolo, nella lotta tra pisani, aragonesi e Giudici d’Arborea per il possesso della Barbagia di Bitti. Il villaggio apparteneva al Giudicato di Gallura.
Nel Manoscritto 58 del Fondo Comparetti – Domenico Comparetti, papirologo, egittologo, era il bisnonno di don Milani – reperibile nel numero 5 del Brads (Bollettino del repertorio e dell’Atlante Demologico Sardo) c’è la leggenda della distruzione di Dure. Racconta in versione bilingue, bittese e italiano a fronte, dei tempi antichi, quando Dure era una fiorente civiltà. Una volta, una povera donna forestiera bussò alla porta di una casa per chiedere sa matriche per il pane. Le venne rifiutata. La povera donna invocò allora la giustizia divina. Si levò una tempesta di fuoco e fiamme e in men che non si dica Dure fu distrutta. Tutti perirono. Si salvarono solamente tre Madonne. Una volò in cielo, l’altra peregrinò sino a Nule, la terza si rifugiò nel colle di San Michele a Gorofai.
Alle Madonne si aggiunse forse S’Antica. Forse era stata lei a rifiutare il lievito madre alla povera donna. Scampata al fuoco fu condannata a espiare, errante anima mala, per l’eternità. Quanta solitudine porta s’Antica ‘e Dure.
Stabilita dimora in una delle cinque chiese, errava per strade e sentieri di pietra, lungo il corso delle acque di Grestales e Cauleddu, in su Guruttu ‘e Pirettu e in altre camineras di terra rossa, gallerie che avevano rovi e storte radici di alberi come tetto. Appariva, quando appariva, con la stessa velocità della donnola, sa danna ‘e muru, un frusciare subitaneo, una linea marrone curvata verso l’interno, imprendibile agli occhi prima che alle mani.
Due anni fa, nell’infuriare del Covid, un poeta compaesano si mise a cercare s’Antica ‘e Dure. Prendeva appunti su un bloc notes di carta spessa come a voler dare tratti e lineamenti somatici al fantasma. Usava a referente Sa tia de filare di Montanaru, «sas manos venosas, in sos ogios terribile piantu, unu luttu de seculos in fronte» e La madre dell’ucciso, scalza, di Francesco Ciusa.
Il poeta venne a dirmi che la cerca lo aveva portato a Babbu Mannu. «Le fiammelle delle lampade votive proiettavano sui muri del santuario le ombre dei banchi, delle poche statue, la scritta Initium Sapientiae Timor Domini». Il cercatore era entrato a Babbu Mannu dalla porta laterale, quella che si apre col passatore esterno, mentre il cielo si riempiva di nubi gravide cambiando la luce sopra il paesaggio, colori che dal verde immoto passavano a quelli dell’ora nona della croce, una piena tenebra. S’Antica ‘e Dure gli apparve all’improvviso, come una luce sghemba, proveniente da una fessura dell’abside. Nel riflesso di quel pulviscolo riuscì a sovrapporsi al Padre Grande che tiene con una mano la croce del Figlio e ha la colomba dello Spirito Santo posata sopra la testa.
S’Antica ‘e Dure era di faccia rugosa, come quella delle vecchie tabaccone della nostra infanzia, le mani ossute intrecciate da un grosso rosario di madreperla, le labbra sigillate in un silenzio eterno. Era in mucatore, il fazzoletto che insieme a una fascia nera sulla fronte le copriva la faccia come un principio di sudario. Le vesti pesanti spandevano tanfo e stantio tutto intorno. Ritta in piedi, fissava il poeta con occhi terribili di acqua intorbidata dal fango. Si impossessava di Babbu Mannu, almeno per un attimo. Poi scomparve.