Sardegna uguale Vietnam
Inviati speciali in Barbagia, Pentalogia/3, Ricciardetto
di Natalino Piras
Augusto Guerriero. In basso: la sua rubrica su Epoca
5' di lettura
28 Settembre 2024

C’è chi sulla Sardegna degli anni caldi del banditismo, terribili anni Sessanta del secolo scorso, ha scritto carico di pregiudizio e con animo da inquisitore, da inviato sul campo senza esserlo, senza muoversi da casa o dall’ufficio, prototipo da leone da tastiera. Però, a dir di Sardegna e non solo, questa gente faceva e fa ancora opinione, considerati classici del giornalismo. Come Ricciardetto, alias Augusto Guerriero, avellinese, morto nel 1983 a 88 anni. Costui, il non-inviato, a vederlo da un punto di vista sardo e non solo, merita damnatio memoriae. Il nome Ricciardetto, a volte si firmava pure Micromegas da un racconto filosofico di Voltaire scritto nel 1752, gli viene da un poema burlesco di Niccolò Forteguerri (1674-1735).

La rubrica di Ricciardetto su Epoca

Due i pezzi del non-inviato, entrambi sul settimanale Epoca, il primo del 1967, numero 890, l’altro del 1969, nella rubrica “Memoria d’Epoca”, la corrispondenza con i lettori in calce. Identica la proposta finale. Nel primo pezzo Ricciardetto, in autentico delirio forcaiolo, chiede che venga chiesta la pena di morte per il bandito Cavallero appena catturato a Milano, parlando di Nuoro e della Sardegna come zona infetta dice che per risolvere il problema bisogna ricorrere al metodo usato in tante campagne militari, nelle guerre di conquista: sterminare tutti gli indigeni, tutti resistenti, tutti banditi, con il gas. Tenendo botta, nel secondo pezzo Ricciardetto parla di napalm, lo stesso usato dagli americani nella guerra del Vietnam, quanto scortica, brucia, è defoliante. «In Sardegna bisogna fare una vera e propria spedizione militare. Le zone impervie delle montagne devono essere vietate ai civili; si deve sparare a vista contro chiunque vi sia sorpreso. Una volta che la zona sia stata evacuata dai civili, si possono usare anche le armi che in guerra sono vietate dal diritto internazionale. Non si riesce a scovare i banditi ed i loro amici? Ebbene si scovino con i gas!». Suona pure ridicolo se non fosse, sta lì il tragico, una maniera di pensare tutta italiana che nord e sud accomunava. Chi sa oggi. Chi sa dove ha accumulato tanto odio Ricciardetto Micromegas. Chi sa se conosceva il libro Caccia grossa scritto dal tenente Giulio Bechi, pubblicato nel 1914 e che fa la cronaca, del tutto falsata da sentimenti antisardi e razzisti  di quanto accadde a Nuoro e dintorni tra fine Ottocento e inizio Novecento, culmine la battaglia del Morgogliai il 10 luglio 1899: intere famiglie arrestate e deportate perché parenti o sostenitori di molta gente alla macchia. Bechi cadde in battaglia, nella prima guerra mondiale. Usciva da un anno di galera, nella fortezza di Volterra, condannato per diffamazione nei confronti di noi sardi che come conoscitori delle leggi e delle dinamiche del tribunale, non siamo secondi a nessuno. Giulio Bechi ha pagato, Ricciardetto no. 

Nel novembre 1999 la rivista Belfagor ha pubblicato un saggio del ricercatore Sandro Gerbi: Ricciardetto e l’uccellino circonciso. Il titolo è richiamato da un’espressione che si trova nei diari di Giuseppe Bottai, al tempo del fascismo governatore di Roma, governatore di Addis Abeba, ministro delle corporazioni e dell’educazione nazionale. Siamo nel 1938, anno dell’emanazione delle leggi razziali, antisemite. «Il problema degli ebrei – annota in controtendenza Bottai – esiste anche in Italia. In piccole proporzioni. Si poteva risolverlo con dei piccoli atti amministrativi: insomma, perché sparare con un cannone per uccidere un uccellino, anche se si tratta di un uccellino circonciso?». Ricciardetto supera di gran lunga Bottai. Una furia.  Scrive sul Corriere della sera che il problema degli ebrei va risolto alla radice: la soluzione finale, lo sterminio totale della razza infetta. Alzo zero. Ricciardetto, scrive Gerbi, «ebbe parte nell’invereconda campagna razziale». Finita la guerra, dopo il 1945, cercò di rifarsi una verginità e ci riuscì. Quanto fu la sua vita di accanito persecutore degli ebrei, sempre in retrovia, seduto in scrivania «era però sostanzialmente ignota, e per di più in contraddizione con le continue prese di posizione filoebraiche di Ricciardetto nel dopo-Liberazione». Autentico trasformista. Sa di beffa il fatto che ci sia un albero con il suo nome nello Yad Vashem, il parco dei Giusti a Gerusalemme. 

L’indagine di Sandro Gerbi, una ricerca d’archivio al Corriere della sera, dice di come Ricciardetto fu un crescendo di mostra di sé, del suo smisurato ego. Era passato al giornalismo dopo essere stato funzionario coloniale in Libia, sempre intellettuale di regime. Fu pure magistrato alla Corte dei Conti. Dopo l’8 settembre del ’43 fu buttato fuori dal “Corriere” e riassunto nel ’46 passerà agli annali con la nomea di prima donna del giornalismo governativo. In tarda età pubblicò un libro di versi dal titolo Quaesivi et non inveni, Sant’Agostino come mentore. Non serve. In sua morte, Indro Montanelli disse che Guerriero fu «antitutto». Non sempre la storia è magistra. Ci fu pure chi come Sergio Romano, altro insigne maestro di giornalismo oltre che diplomatico, mandò assolto Augusto Guerriero per i peccati commessi, bastava solo un semplice atto di dolore. Qualcun altro, qualche tempo fa in un sito web per onorare Ricciardetto scomodò il Qhoèlet, l’Ecclesiaste, il libro sapienziale per antonomasia dell’Antico Testamento: «Portò il sapere al popolo. Scrisse in bello stile onestamente la verità». Quale insostenibile menzogna.

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