Le ragioni alla base della crisi del sistema Italia
di Aldo Berlinguer

1 Marzo 2022

10' di lettura

Aldo Berliguer è professore ordinario all’università di Cagliari, specializzato in diritto europeo, privato, commerciale e bancario. È anche un’opinionista, dell’Unione Sarda e di altri giornali, molto conosciuto. Con lui riflettiamo sulla crisi del sistema Italia. L’impressione è che la democrazia italiana sia al collasso. «Bisogna recuperare le cause dei nostri mali che purtroppo sono in parte endemici. Mi riferisco soprattutto a un certo connotato culturale, direi una tara, che ci attanaglia non da oggi. Proverbialmente gli italiani sanno arrangiarsi, essere operosi e farsi conoscere nel mondo, ma hanno poca inclinazione a fare squadra, ad avere un senso di comunità. Credo che questo sia la ragione principale, nota e arcinota, del lento declino. Nei film di Alberto Sordi è magistralmente, con ironia, incarnato questo modo di pensare degli italiani. Abbiamo letto Oriana Fallaci che se ne rammaricava. Montanelli diceva che l’Italia come sistema non ha futuro; mentre l’italiano si arrangia, riesce e ce la fa, l’Italia come sistema è destinata a collassare. Tanti altri hanno approfondito il tema sul piano scientifico, se vogliamo usare questa parola. Basti pensare al famoso libro di Carlo Levi Cristo si è fermato ad Eboli. Negli anni ’50, il sociologo americano Edward C. Banfield fece un viaggio in Campania e Lucania e scrisse un volume il cui titolo resta scolpito nella memoria, Le basi morali di una società arretrata, quello che poi passò alla storia come “Il familismo amorale”. Tutti questi hanno sottolineato le inclinazioni degli italiani a preoccuparsi della propria sfera ristretta di affetti e di interessi e quasi mai della sfera comunitaria, al di là di qualche eccezione. In Sardegna, nonostante ci siano diversi istituti che ci ricordano la solidarietà e ci riportano al senso di comunità, è ancora attuale il detto Pocos, locos y mal unidos. La difficoltà di unirsi in una serie di battaglie e di interessi generali è il problema di fondo e da questo si dipanano tanti difetti arcinoti. La ventata populista si sta definitivamente arenando sugli scogli e non so se ci sia da piangere o da ridere, ovvero temo che una volta passata torniamo al clientelismo più bieco che purtroppo attanaglia anche la Sardegna. Ricordiamo per esempio quell’orrenda legge “Omnibus” al cui interno ci sono circa trecento milioni di spesa pubblica, elargiti in prebende a chicchessia, invece di essere utilizzati per progetti di sviluppo. Il clientelismo alla fine che cosa è? È la consapevolezza del politico che all’elettore non interessa costruire una società migliore bensì avere una vita migliore, la sua. E per averla lui chiede di soddisfare dei bisogni primari, vuole avere uno stipendio maggiore, avvicinarsi magari a casa, avere un condono. Nella percezione degli elettori il bonus è un rapporto di scambio, io ti voto per avere un beneficio. Questo è figlio della visione individualista e di clan di cui noi siamo affetti». Il sistema impresa pare si sia estraniato dal dibattito pubblico, quasi supinamente si è subordinato a quello che nelle sale di regia si decide e si fa. «Anche l’impresa, in particolare nel Mezzogiorno si è nutrita di un rapporto di subalternità rispetto alla politica. In alcuni casi si è investito dove erano presenti le sovvenzioni pubbliche non dove si aveva un’idea di sviluppo o un progetto industriale. La competenza e le capacità sono passate in subordine. Questo non è il terreno fertile per lo sviluppo ma per un neo feudalesimo nel quale l’impresa è assoggettata al ricatto da parte della politica. Fin tanto che la politica elargisce prebende il sistema economico resta in piedi per quanto assistito e poi demolito nelle sue fondamenta. Appena le prebende vengono meno tutto crolla. Manca la canna da pesca e ci sono solo i pesci. Si è nutrito il bisogno dando il pesce invece che, come da proverbio, dando strumenti come la canna per pescarli e potersi sostenere». Su questo versante c’è anche l’aspetto dei sindacati che son davvero “fragili”, ripetitivi e prevedibili. «Io sono affezionato alla storia del sindacato che ritengo abbia fatto grandi battaglie. Tuttavia, in molti casi, vedo una flebile partecipazione su battaglie che sono invece propriamente nelle corde della sinistra in generale e delle forze che tutelano il lavoro. Avrei gradito che i sindacati, dinanzi alla legge che ho citato prima (Omnibus), in quanto custodi e tutori dell’idea del lavoro e del merito, si fossero sollevati. Ne dico un’altra. Oggi assistiamo al caro bollette. Se guardiamo dentro queste bollette c’è una voce, Imposte e Iva, che se non è la principale quanto meno è saliente. Il prelievo fiscale su molti prodotti viaggia sul 50% dell’importo totale. Anche i carburanti hanno accise di Iva a livelli incredibili e non comparabili con altri paesi europei. Più cresce il prezzo del prodotto più c’è gettito fiscale. Lo Stato, con la tassazione indiretta, sta falcidiando le famiglie e le imprese perché aumenta il gettito esponenzialmente in base all’aumento del prodotto. Tu compri un litro di benzina e paghi un euro di tasse, quindi più aumenta la benzina più il gettito esponenzialmente aumenta per lo Stato. Più che ristorare, basterebbe riducesse le imposte indirette su questi consumi. Le tasse le deve pagare chi ha dei ricavi non chi ha dei costi. Se tu hai dei costi non devi pagare le tasse. Perché anche in questo capitolo i sindacati sono muti?». Nella crisi del sistema Italia c’è anche la burocrazia diventata pletorica e spesso al servizio dei suoi interessi particolari e non del pubblico. «Lì c’è un’antica questione che viene brandita anche dai rivoluzionari del momento. Si fanno eleggere al grido del “Snelliamo la burocrazia”, “Facciamo fuori i burocrati”, “Mandiamo a casa gli esuberi e avremo uno Stato più efficiente”. Mi viene in mente un aneddoto che anche Guido Melis ha rispolverato recentemente in un suo libro. Quando arrivò il fascismo, i fascisti avevano nella loro propaganda l’idea di fascistizzare lo Stato, perché quello liberale esistente, secondo loro, era corrotto, inefficiente, pletorico, burocratico. Molte di queste istanze sono tutt’oggi presenti e tutti inneggiano alla stessa cosa immemori che questo stesso argomento è stato sollevato a più riprese nella nostra storia. Cosa successe negli anni ’20? Un paradosso! Quando Mussolini andò al potere alle fine partorì delle riforme liberiste sulla burocrazia. Mise al ministero delle Finanze un certo Alberto de’ Stefani che fece esattamente ciò che chiedeva la vulgata fascista. Prima le epurazioni, mandando via un bel pò di esuberi. Poi fece il blocco delle assunzioni. Un bel giorno il Duce si inalberò e disse: “Scusa, avevamo detto che volevamo fascistizzare l’amministrazione pubblica ma se tu non mi fai entrare i fascisti, io sono costretto a stare con i liberali, cioè con quelli che si sono formati con Nitti, Salandra e Giolitti. Come faccio a fascistizzare lo Stato?” de’ Stefani rispose: “Ma tu vuoi uno Stato efficiente? Oppure uno Stato pletorico? Se io apro le porte a ingressi e nuovi assunzioni avrai uno Stato pletorico che è quello contro cui abbiamo combattuto. Io ho bisogno di competenze”. Il Duce inferocito disse: “Ma non ci sono camicie nere dentro all’amministrazione”. Alberto de’ Stefani replicò con una frase che secondo me è scolpita nella nostra storia: “Eccellenza, le camicie nere non ci sono, ma ce le posso anche far mettere”. Ecco, questa frase rispecchia il nostro Paese: rimaniamo uguali a noi stessi mettendoci la camicia in quel momento più conveniente da mettere. Per i dirigenti piuttosto che per gli altri funzionari ci sono sempre interessi di carriera e sempre meno interessi generali e, come diceva Tomasi di Lampedusa, “Tutto cambi per non cambiare niente”. Se noi non inneschiamo dal nostro interno dei cambiamenti nel modo di vedere, partecipare e conseguire interessi generali ci rifugiamo dietro le procedure e gli adempimenti pur di metterci al riparo, senza ragionare per obiettivi ma per procedure. Questo è conveniente per chi sta dentro la macchina pubblica, perché ci si espone meno. Non c’è riforma possibile se rimaniamo avviluppati nei nostri piccoli mondi e interessati solo ai nostri bisogni». La responsabilità dei media in tutto questo contesto. «Io capisco il disagio dei mezzi di comunicazione tradizionali. Si vedono sorpassati da questa marea montante che sono i social e il web: alla fine, pur di stare sulla notizia, inseguono quello che si va propagandando in questa specie di Agorà senza controllo. Ci sono delle grandi multinazionali che investono sia per acquisire i dati dei consumatori, di noi tutti, sia per manipolare le coscienze. Non a caso anche il Papa è intervenuto su questo argomento. Un tema molto serio di questi tempi. I media tradizionali rincorrono le notizie cercando di essere primi ma accorgendosi sempre di essere ultimi. Quindi c’è uno svilimento generale dell’informazione. Non si ha più il tempo di approfondire, i costi sono elevati, i lettori si riducono, non si vendono le copie. Mi rendo conto che ormai è un settore estremamente sfrangiato, debole e in cerca di sopravvivenza. Se tu fai la grancassa di un sistema ormai malato, ti ammali anche tu. Del resto, lo dice la psicologia cognitiva, i contenuti non sono più fondamento della persuasione. I contenutisti, quelli che studiano, che fanno ricerche, pensano ancora di persuadere l’interlocutore attraverso i contenuti. Poi nella realtà ci rendiamo conto che invece molto spesso è più persuasiva la posa o la postura di chi parla rispetto a quello che lui dice. Altri sostengono che ormai l’utente medio ha una soglia di attenzione inferiore a quella del pesce rosso: per acchiappare l’attenzione dell’interlocutore devi solo dire monconi di frasi o esporre immagini, come alcuni social fanno, avendo abolito la lingua scritta e procedendo solo per immagini. Non c’è manco il tempo di leggere una frase. La stampa o la comunicazione diventa purtroppo un volano e un amplificatore di queste patologie piuttosto che un argine nei loro confronti». © riproduzione riservata

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