Il nostro rapporto con Dio
Commento al Vangelo di domenica 26 ottobre 2025 - XXX Domenica del Tempo Ordinario - Anno C
di Federico Bandinu
Parabola del fariseo e del pubblicano, anonimo (1643), Rijksmuseum, Amsterdam
4' di lettura
26 Ottobre 2025

La parabola proposta questa domenica continua l’istruzione di Gesù sulla preghiera. Essa non vuole essere lo spunto per proporre, a noi stessi o alla comunità, una classificazione di chi fa parte della squadra dei farisei illusi e chi di quella dei pubblicani giustificati, ma l’occasione per verificare il nostro intimo rapporto con Dio. Possiamo trovarci ad essere in un momento farisei e in un altro sentirci pubblicani. La preghiera è relazione; al credente viverla in modo autentico o mascherato.

La maschera è l’illusione che siamo autosufficienti, autonomi e autodeterminati. Il fariseo cade in questo tranello: si sente soddisfatto di sé, non sente nessun bisogno, non avverte la fame del pellegrino. Non ha una Speranza a cui tendere. La sua preghiera puzza di chiuso; è un uccello ingabbiato nella stanza dell’io, vorrebbe volare verso il destinatario della lode ma sbatte contro gli infissi chiusi di un’autoreferenzialità che ne blocca i sogni e soffoca le prospettive. Queste “manifestazioni di un immanentismo antropocentrico” (EG 94) più che affrancare l’uomo lo relegano ad una condizione innaturale di ovvia insoddisfazione esistenziale. Luca sottolinea l’autoinganno del fariseo: infatti se egli “tra sé” nega di essere ladro, ingiusto e adultero; poco prima è presentato da Gesù come tale (cfrLc 16,14-18). «La capacità che ha l’uomo di ingannare sé stesso è ben superiore alla sua capacità di ingannare gli altri» (Ghandi). Ogni uomo che si ritiene superiore ad un altro si inganna e, come affermato dalla logica evangelica, verrà umiliato. L’umiliazione non è una violenza a sé stessi ma un atto di consapevolezza, carità e verità. I Santi, a partire da Maria, hanno percorso questa via per incontrare in modo autentico Gesù e lasciarsi giustificare e salvare da Lui. 

Stare in piedi è la postura dei risorti. Il fariseo sta in piedi ma facendo affidamento su sé stesso, non sarebbe capace di muovere un passo perché la sua maschera argillosa cederebbe. Egli ringrazia ma per doni che non ha ricevuto facendo un torto a sé stesso e a Chi quei doni li effonde con generosità. I suoi occhi, sicuramente orientati verso l’alto, realmente guardano l’altro per giudicarlo e schifarlo. Il pubblicano non osa stare in piedi, ha bisogno che qualcuno lo sollevi (faccia risorgere), non alza lo sguardo verso il cielo non ritenendosi degno, tuttavia è totalmente proteso miseramente verso quel Datore dei doni disprezzato, nei fatti, dal fariseo. Battendosi il petto riconosce che «non siamo quindi nulla in noi stessi» (Harmut Mohncke) e riconosce la sua inadeguatezza gridando il suo bisogno di un Dio che possa salvarlo. Il cristiano vivendo la condizione, attraverso il Battesimo, di incorporazione a Cristo e quindi essendo reso partecipe dei suoi meriti, guadagnati con la Sua morte e risurrezione, ci strappa dalla morte, dal nulla che soffoca e dal peccato che ingabbia. «Tutti hanno peccato e tutti sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la Sua grazia, in virtù della redenzione realizzata dal Cristo Gesù» (Rm 3,23-24). Il greco offre un’indicazione, non semplicemente linguistica, la giustificazione è ricevuta passivamente per poi essere accolta, non è attivamente conquistata. «Lo sviluppo [e il mondo] ha bisogno di cristiani con le braccia alzate verso Dio nel gesto della preghiera, cristiani mossi dalla consapevolezza che l’amore pieno di verità, caritas in veritate, da cui procede l’autentico sviluppo, non è da noi prodotto ma ci viene donato» (CiV 79).


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