Dae Carrasecare a Mercuris de lissu
Carnevale e Quaresima sono un continuato confronto tra il grasso e il magro, tra la smisurata, scellerata abbondanza, e la secchezza del corpo che dovrà sostenere penitenza e digiuno
di Natalino Piras
Pieter Bruegel il Vecchio, Lotta tra Carnevale e Quaresima (1559), Kunsthistorisches Museum di Vienna
5' di lettura
9 Marzo 2025

Carnevale, Carrasecare viene da «carne tagliare», ma pure togliere, levare, nel tempo grasso, dove il lardo è inteso come consumo, come abbondanza a venire. E le maschere. Lissu, lissia, lisciva è la cenere ottenuta dalla bollitura degli ossi e altri scarti del maiale: lo stesso procedimento per fabbricare sapone, quando le donne lavavano i panni nel fiume e accendevano fuochi per far bollire l’acqua in lapiolos di rame. La cenere rimasta serviva tra le altre funzioni per Mercuris del lissu, il giorno dopo martedì grasso, sa die de su mamentomo, quando in chiesa il prete segnava con una croce la fronte dei fedeli dicendo: «Memento, homo, quia pulvis es, et in pulvem reverteris». 

Carnevale e Quaresima sono un continuato confronto tra il grasso e il magro, tra la smisurata, scellerata abbondanza, e la secchezza del corpo che dovrà ancora sostenere penitenza e digiuno. Ben rappresenta questa contiguità, autentico mondo alla rovescia, autunno del Medioevo come stato presente, un perenne carnevale di storpi e folli, esseri mostruosi e deformi, il dipinto, olio su tavola di Pieter Bruegel il Vecchio: Lotta tra Carnevale e Quaresima (1559.) In primo piano un grassone cavalcioni sopra una botte tiene uno spiedo con infilzata una testa di porco, come a duello con un’altra figura, magra come la fame, in tonaca grigia, che ostenta una pala da forno con sopra due aringhe. 

Molta storia e cultura europee sono dentro quel quadro. A Carnevale, la follia era legalizzata e istituzionalizzata. Portavano gli asini anche dentro le chiese rileva lo studioso di segni Michail Bachtin. Si mangiava e beveva a crepapelle. Carnevale era tempo di feria grassa. Durava poco.  In Quaresima si tornava al tempo ordinario della miseria e della fame. Le maschere di carnevale non era necessario fabbricarle. C’erano già. Molte facce di quel Medioevo per tutte le stagioni, deformate e mostruose, sono già di per sé maschere. Insieme a Bruegel lo rivelano le pitture di Hieronymus Bosch e altri fiamminghi di quel Quattrocento-Cinquecento-Seicento ma pure opere di Lucas Cranach, Hans Memling, le incisioni di Albrecht Durer che estendono tratti e segni sino all’Entrata di Cristo a Bruxelles (1888) di James Ensor, opera a lungo considerata blasfema. Una mascherata senza fine di borghesi, politicanti, guerrafondai, dame e scheletri. L’avesse vista un vecchio orgolese, contrario a ogni mascherata, retranchi curzu che nessuna trasgressione tollerava, avrebbe esclamato: «Unu muntonarju in die de ventu».   Tali erano per lui tutte le maschere. 

In Barbagia, molti paesi non hanno tradizione di Carnevale: Bitti, Orune, Oliena, Ollolai, Sarule, appunto Orgosolo, altri, non hanno nessuna maschera rappresentativa. Come lo sono invece sos Mamuthones di Mamoiada, sos Thurpos di Orotelli, sos Merdules di Ottana, su Bundu di Orani, su Battileddu di Lula.  Gente mascherata, carazzas sagomate e sgorbiate, mostruose, diaboliche, dove non può la maschera il nerofumo, imbovatos, erkitos, presos, danze storpiate di meres che tengono a fune, a socca, angariati theraccos, gente magra e altri con otri pieni di vino, color sangue, al posto delle pance. Nessuna presenza donnesca. Ballano curvi sotto il peso di carrigas e campanacci cuciti su pelli di cinghiale, che è una rappresentazione del diavolo. Nessun segno di gioia. Il Carnevale dei sardi è privo di lietezza, Nessuna musica rinascimentale lo accompagna. Né violas e mandolas. Solu sonos, forti come quelli de sas matraculas di Settimana Santa. Il potere ctonio, del sottoterra, si fa grido per chiedere acqua, abbondanza di messi, buon raccolto, invocazioni a Maimone e altri dei, verrà anche il Dio cristiano, dove è la violenza dell’urlo, del corpo storpiato, sofferente, a condurre la rappresentazione. Storia a parte quella de sos Tumbarinos di Gavoi, dove qualche traccia di autentico godimento, di vera trasgressione, si percepisce nel frastuono, nel rullare dei tamburi, nel tintinnare de su triangulu, nel fischio de su pipiolu. Molto di tutto questo sta diventando folklore.   

Altrove la violenza contadina, la furia, esplose a Carnevale. Tutti i senza maschera i contadini della marca friulana che di Zobia grassa, il nostro Jobia lardajolu, nel 1511, iniziarono una rivolta contro i signori che li angariavano, li martoriavano, li mangiavano vivi, li costringevano alla fatica bestiale, alla miseria e alla fame. Fu un sanguinoso Giovedì grasso. 

Quasi quattrocento anni dopo, in Barbagia, era martedì grasso quel 27 febbraio 1906. Era ormai sera ma sos ballos mascaratos duravano ancora, in Piazza ‘e marcatu, sotto la chiesa di San Giorgio. Erano quasi le sei di sera quando una maschera, si era avvicinata al cerchio del ballo e aveva esploso una revolverata in piena faccia, uccidendolo, contro il sindaco Angelo Mossa Naitana, anche lui partecipe delle danze. Tricu vezzu. Ancora in corso diverse guerre civili per la proprietà delle terre, a datare dall’infausta legge delle Chiudende nel 1820. Il ballo di Carnevale terminava tragicamente. La maschera che aveva sparato a bruciapelo contro Angelo Mossa Naitana, saltò nel burrone sottostante piazza del Mercato con l’agilità di un felino. Approdata a terra, la maschera scomparve tra i vicoli. Sarebbe venuta tanta Quaresima. Né Carrasecare, come proiezione geografica e storica, finiva del tutto. A Ovodda, Don Conte, maschera di feudatario oppressore, l’equivalente di Cancioffali cagliaritano, Giolzi tempiese e bosano, tutti re di burla, ancora lo processano e lo bruciano il giorno di Merculis de lissu, Mercoledì delle ceneri. 

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