Deus in Chenapura Santa
La poesia è capace di rendere con parole intense il racconto della Passione, dal Getsemani all’ora nona, quando Gesù innalzato sulla croce, chinato il capo, rende lo Spirito
di Natalino Piras
Hans Memling (Seligenstadt 1436 circa – Bruges 11 agosto 1494) Deposizione dalla Croce, olio su tavola, pannello centrale del Trittico di Adriaan Reins (1489), Bruges, Ospedale di San Giovanni
6' di lettura
20 Aprile 2025

In tutto il mondo cristiano, uno dei momenti più rappresentativi del Venerdì Santo, liberato da ogni folclore di comodo è, attingo dalla tradizione del mio paese, quando qualcuno incontra la Madonna per strada, dolente, e le chiede: «Signora pruite ammantates/sa cara bianca ke nie/natze signora pro kie/su mantu nieddu portates?». Risponde Maria, l’Addolorata, che «su itzu meua trintatres annos» è stato «pissikituflagellatuaboffettatuiscupitumortu e cossumitu». Poi, proseguendo in s’attitu: «Fitzu catturatu in sortu/Fitzu in sambene iscatzatu/fitzu meu istrasinatu». La poesia è capace di rendere con parole intense il racconto della Passione, dal Getsemani all’ora nona, quando Gesù innalzato sulla croce, chinato il capo, rende lo Spirito. Un bel mistero ancora oggi, tempo dove il disumano predomina, quello di Dio che muore come uomo, per la salvezza dell’umanità, nella maniera più crudele e infamante: la crocifissione. Col tempo il sentire compartecipe di Deus in Chenapura Santa si è incrostato di cinismo, di indifferenza, di distacco. Molti, moltissimi, i cristiani per cui Venerdì Santo è solo un giorno di feria. E poi oggi c’è la guerra che acuisce l’abbandono globale di qualsiasi progetto salvifico per gli uomini e i luoghi da loro abitati, molte le fosse comuni, sempre più in diminuzione la memoria storica come innesco di conoscenza. Deus continua a morire di Venerdì Santo e pure in tutti gli altri giorni dell’anno. Ma chi se ne accorge? Chi sente la Pasqua come mistero del Risorto dai morti, come lezione di speranza? Eppure la tradizione del Venerdì Santo, in tutte le ere del cristianesimo e non solo questa lezione contiene. Venerdì Santo è al centro di una tradizione che molti popoli riguarda, immagini, dipinti e sculture, voci, preghiere, canti, scritture, poesie, romanzi, teatro, film eccetera eccetera. Diversi i personaggi che stanno ai piedi della Croce, in attesa che Gesù venga deposto con tutta la pietas di cui necessita l’atto. Preziosa Ruke Santaarbore deterna vida recitano sos gosos. Soccorre sempre la poesia. Noi sardi siamo in questo buoni intrerpreti del giorno più significativo della Passione. Riusciamo a far convivere la Via Crucis come atto di fede e il teatro de S’ Iscravamentu quando non cediamo allo spettacolo per turisti. Deposto Gesù dalla Croce, adagiato su una barella, a volte ornata, altre volte spoglia, accompagniamo in processione custu Deus de Chenapura Santa al luogo della momentanea sepoltura sapendo che di lì a tre giorni quello stesso Deus si alzerà risorto e ritroverà sua Madre in quell’altro rito fondamentale, se liberato dal folclore, de s’Incontru.

S’Incontru (photo by Maria Garofano)

Orazioni e canti, le campane mute de Chenapura Santa, presas, nelle orecchie il suono di matraculas e orriaiolas lungo strade, slarghi e guruttos. È diventata un classico la canzone di Francesco Guccini: «Venerdì Santo, prima di sera, cera lodoredi primavera». S’Interru de Deus in Chenapura Santa è la più importante delle processioni. Lo si accompagnava vestiti in costume tradizionale, omines e feminas, l’abito della festa oppure gli abiti di tutti i giorni, gli abiti-fatica, gli abiti-lavoro. Siamo stati, chi sa se ancora, attori casuali oppure confratelli e consorelle nei ruoli di Nicodemo, Giuseppe D’Arimatea, Maddalena/Veronica/ Maria/ e altre pie donne che sostengono Sa Mama de sos sette dolores, il cuore da tante lanzas trafitto. 

Venerdì Santo è nella nostra condizione storica. Conosciamo a memoria Sos uffissos de Chita Santa, la loro solennità e i loro aspetti tragicomici, le parodie involontarie, latino e greco mischiati senza sapere cosa vogliano dire aleph ghimel vau nuun. Pure siamo stati e siamo ancora capaci di chiedere e cantare, a voce veramente contrita: Perdonu Deus meu. Una preghiera che niente sa di succube, che continua a mettere, interpretata a boche sola o in coro, su pilu rizzu. Abbiamo vasto repertorio da cui attingere. Il gesuita Bonaventura Licheri (1667 -1733) di Neoneli in Su Settenariu pro sa Chida Santa fa da tramite per il suo tempo e per quello a venire con Donna de Paradiso/lo tuo Figliolo è priso, la famosa laude di Jacopone da Todi del secolo XIII.  Diamo importanza alla ritualità. «Ora era l’azione dello scrocifiggere che occupava i pensieri del predicatore. Prima di togliere i chiodi veniva presa dal capo del Salvatore la corona di spine. Uno del quintetto dei confratelli che ancora reggeva nonostante il vino saliva su una scala a pioli, liberava il capo di Gesù del supplizio, scendeva e la corona veniva deposta su un vassoio. Un altro la presentava alla Madonna, che le devote avevan già posto a lato del presbiterio, parata a lutto. Vestita così la Madonna Addolorata pareva una delle nostre mamme, vestita in costume. Noi la sentivamo vicina alle nostre miserie, ai nostri dolori, come eravamo vicini noi al suo sovrumano dolore. Nessuna tragedia noi sardi abbiamo tanto sentito nella nostra carne, quanto quella del Golgota, perché come la tragedia della nostra gente, amara come le nostre lacrime. Il nostro, anche se molti non vogliono che si dica, è un pianto di secoli. La nostra Madonna, vestita alla sarda, sapeva tutto questo o almeno noi lo crediamo». Così Gian Carlo Frassu, prete di frontiera, ricorda la cerimonia de S’Iscravamentu al suo paese, Oschiri, in un racconto inserito in Sprazzi dantica vita barbaricina, il quinto libro di Monsignor Raimondo Calvisi adesso in riedizione. In quel paese, mai detto col suo nome da Gian Carlo Frassu, ci riconosciamo. 

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