La Sardegna come Barbiana nel “Diario di una maestrina”
Ciascuna tappa un romanzo, la scuola come cronaca del tempo dell’insegnare e dell’apprendere, entrambe cose difficilissime, come osservatorio, come lezione antropologica
di Natalino Piras
Maria Giacobbe (ph Massimo Locci)
5' di lettura
12 Maggio 2023

Sono passati 66 anni dalla prima uscita, per Laterza, dell’opera più importante di Maria GiacobbeDiario di una maestrina che insieme a La scuola nemica (1973), Le bacchette di Lula (1974), La supplente (1975) e Un anno a Pietralata (1979) di Albino Bernardini sono da considerarsi dei classici per il senso, e la capacità, dell’essere i sardi grandi pedagogisti. Specie se la loro scuola è fatta e sta dalla parte degli ultimi. Ragionando in termini di locale-globale, l’esperienza di cui Diario di una maestrina fa cronaca, è come quella delle due Margherite Sanna, una di Orune l’altra di Nuoro, raccontate in questo paese portatile, nei duri anni del secondo dopoguerra, dentro un contesto di resistenza all’alfabetizzazione forzata, però di forte cultura autoctona. Allargando la visione, la Sardegna dell’interno di quegli anni Cinquanta somiglia alla Barbiana, poco più di venti case abbarbicate sull’Appenino toscano, il luogo dell’esperienza di don Lorenzo Milani. È da là che proviene Lettera a una professoressa (1967), scritta dal priore insieme ai suoi allievi, la contestazione della scuola dei ricchi che appunto perché sono ricchi conoscono molte più parole dei poveri. Per questo sono padroni. 

La stagione totale del priore di Barbiana è riconoscibile anche in Diario di una maestrina.

Maria Giacobbe, classe 1928, nuorese di Santu Predu, figlia della maestra Graziella Sechi e dell’ingegnere Dino, nell’élite dell’antifascismo barbaricino insieme a Raffaello Marchi e la moglie Mariangela Maccioni, Efis Caria, Giovanni Dettori, i fratelli Franchi, il dorgalese Crodazzu, dottor Ennio Delogu e pochi altri, è da anni che vive tra Sardegna e Copenaghen. Suo marito, Uffe Harder, era anche lui scrittore, insieme con Maria hanno tradotto dal danese in italiano le sceneggiature cinematografiche di un grande regista del muto, Carl Theodor Dreyer. 

Diario di una maestrina è l’opera d’esordio di una ragazza «della migliore società nuorese», gli annoiati-bene per quanto questa locuzione poteva valere nel capoluogo della Barbagia di allora, che, per caso, dopo aver interrotto il liceo classico e dopo due anni dal diploma magistrale inizia «una supplenza di quindici giorni in una scuola di tricofitici e di tracomatosi», sa tinza e sos ocros rujos e infezionatos, in uno sperduto luogo tra Bassa Gallura e Baronia. Un’aula a pianterreno in una casetta decrepita ai margini del paese. Il pavimento in terra battuta. Assi sgangherate come banchi. Gli animali domestici, asini, pecore e capre, maiali e qualche mucca a fare insieme. Pure le bisce. Sarà il mostrare agli alunni che lei non ne ha paura perché anche per lei, figlia di gente considerata ricca, è stata la campagna la prima scuola, a trasformare la diffidenza in ammirazione. E permetterle di stabilire nuovi patti con la classe. Peccato che questo traguardo raggiunto coincida con la fine della supplenza. Altri, d’ora in avanti, saranno i percorsi: Oliena, Fonni, Bortigali, Orgosolo.

Ciascuna tappa un romanzo, la scuola come cronaca del tempo dell’insegnare e dell’apprendere, entrambe cose difficilissime, come osservatorio, come lezione antropologica. La Barbagia e il Marghine, la condizione pastorale e contadina tessuta dal bisogno, dall’estrema povertà, dal tempo ostile, la pioggia, la neve, il fango, le bambine  che alternano l’obbligo scolastico a s’aggiudu (Fonni), l’andare a servizio anche per qualche ora, equivalente del tzeracare dei ragazzi-pastori, a volte solo per poter mangiare,  balentes e balenteddos, operai alla giornata, buoni e cattivi esempi,  lo stravagante Don Coco, Letizia figlia di ragazza madre considerata una poco di buono, i banditi, sos carabineris, la galera, il confino, il benpensantismo  bigotto e violento dei colleghi e delle colleghe della maestrina, infine la solidarietà da parte della gente ottenuta lavorando giorno per giorno. Con una visione propria, diversa, staccata da quella imposta dai programmi ministeriali che allora erano una cosa neppure così definita. Orgosolo è centro di emanazione il punto di ritorno della narrazione, la scuola come condizione indispensabile. Sono gli stessi anni delle inchieste di Franco Cagnetta che serviranno poi a Vittorio De Seta come fonte per la sceneggiatura del capolavoro Banditi a Orgosolo (1961). Il Marghine, a confronto, sembra una terra lontana, abitata da gente dai modi civili, che niente hanno del selvatico e della rudezza, ma pure della dolorosa sincerità degli orgolesi.

In piena guerra fredda, tra blocchi contrapposti, cattolici e comunisti, situazione che la periferia avverte e sente così come il centro, la maestrina usa della scuola come fase proponente di un vivere meno duro, più solidale. Mette in rilievo, con graduata ironia, i difetti caratterizzanti la gente dei paesi della Barbagia, l’arte dell’adattamento degli olianesi, la forte parsimonia dei fonnesi, lo studiare con diffidenza il forestiero degli orgolesi. 

Diceva la stessa Maria Giacobbe in un convegno internazionale su Salvatore Satta, a Nuoro, nel 1989, di sentirsi tra quegli accademici, linguisti, giuristi eccetera eccetera, come «mariane in mesu ebbas». La stessa condizione di quando era maestrina.

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