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L’Ortobene
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Direttore Responsabile:
Francesco Mariani
La Messa del gallo è antica quanto il cristianesimo. Ne scrisse intorno al 381 Egeria, autrice romana andata pellegrina in Terra Santa. A Gerusalemme nella notte tra il 24 e il 25 dicembre partecipò a una messa che celebrava la nascita di Gesù. Era l’ora che cantava il gallo, forse ben oltre la mezzanotte, sul fare dell’alba. La mezzanotte è di tradizione iberica, dalla Spagna esportata in tutte le colonie e le terre dominate. Noi sardi siamo stati per secoli e secoli sotto il dominio spagnolo.
Per quanto riguarda misa de gallo, miss’in puddu, vasta è letteratura. Ciascun paese, tra oralità e scrittura, è un contenitore di storie, almeno fino a quando Miss’in puddu ha rispettato l’orario canonico della mezzanotte. Ci sono narrazioni diventate classiche. Notevole il racconto Trafitto Sebastiano di Salvatore Cambosu. Siamo in un paese di montagna dove i bambini venivano svezzati con l’acquavite. Un paese di folli, la violenza e il ricorso alle armi, ferro freddo, come pane quotidiano. Sebastiano Tonarese, balente a suo modo, «il più bello e il più agile dei danzatori» arriva ebbro alla messa del gallo. Nevicava forte quella notte. Dentro la chiesa «il Bambino era nato, i re pastori camminavano dietro la stella coi loro carichi preziosi». Antichissimi canti si levavano verso la volta. Partecipa anche Sebastiano che ad un tratto s’accascia, morto. Il vicino lo solleva e grida: «Trafitto Sebastiano», un suo rivale in amore, per Serafina Marchiadoro, «lo aveva trafitto alle spalle col suo sottilissimo stile». Sebastiano, ebbro, non se ne era neppure accorto.
Forse sono lo stesso paese e la stessa chiesa di un racconto che una volta fece Michele Columbu, narratore per antonomasia, imitando linguaggi, toni, timbri e gestualità. Nevicava forte anche quella notte di Natale. Prima della messa del gallo, il prete, in realtà capo di una banda di abigei, manda i suoi a fare bardana. Con il patto che sarebbero dovuti tornare in chiesa prima che finisse la messa. E annunciare, in suspu, la lieta novella della bardana riuscita. Quelli partono ma le cose non vanno come dovrebbe. Tornano a mani vuote, vesti stracciate, qualcuno zoppicante, altri con le ossa peste. Entrano nella chiesa affollata proprio nell’ora che il celebrante si gira per dare dall’altare l’ite missa est. Il capo li vede e subito si accorge. Chiede, salmodiando: «E inzandus?» E quelli, stesso tono di mesta cantilena: «Gai seus annaos aicci seus torraus». Il prete dissimulò la rabbia con finale da Prefazio: «Ma si b’ippo istetiu deo da ci ddu portao su babbu de sos meos meos».
Miss’in puddu accettava tutte queste profanazioni. Era lecito un totale abbassamento del sacro. Solo per quella notte. Missa in puddu era per grandi, i bambini, se mai avessero partecipato, facevano eccezione. Nella società pastorale, come quella del mio paese, era una delle poche occasioni che la chiesa si riempiva di uomini, la maggior parte ubriachi. Scapoli e pure fidanzati e ammogliati insieme alle loro donne che inutilmente li combattevano. Inneggiavano alla nascita del Signore a modo loro. Adattavano a bimbò quanto era solenne, tutte le varianti del venite adoremus. Chi non si scandalizzava era il Bambinello del presepe allestito nelle vicinanze dell’altare. Se ne stava da cent’anni e passa, beato e placido, in perfetta armonia con quanto era quel suo mondo: Maria e Giuseppe, il bue e l’asinello, i pastori accorrenti, humiles, ad cunas. Saliva forte il suono dell’armonium suonato da tziu Bulloni. Il sacrista era fresco reduce dall’aver cercato, a voce grossa, di redarguire i più tumultuosi e riottosi. Non erano serviti a calmarli neppure i richiami del parroco celebrante. Dice la leggenda che più di una volta canonico Respano scese dall’altare in paramenti e dalle parole passò ai fatti: sberle e minacce di scomunica a chi non voleva proprio stare a sentire, a chi non mostrava un minimo di religiosità. C’erano anche molti anticlericali, confusi tra la folla dei fideles e dei laeti in diversa maniera triumphantes. «Custu pitzinneddu chene vinu nieddu, chene abbardente».
C’era chi non demordeva. Correva il 1967. A missa in puddu, il parroco don L. se la prese nella predica contro alcuni «giovinastri» che fuori di chiesa distribuivano volantini inneggianti a un «pretastro», Camilo Torres, colombiano, guerrigliero della teologia della liberazione. La chiesa di Santu Jogli era un cantiere, in via di cancellazione gli affreschi sulla volta e nelle navate, in via di smantellamento l’altare e i suoi marmi.
Un’altra volta, due ciondolanti ubriachi, nemmeno ventenni, di carattere violento, entrarono in una sguarnita sacrestia proprio quando nel resto della chiesa stracolma ferveva la messa. I due ubriachi, con camicie da figli dei fiori si vestirono uno da prete e l’altro da jacanu. Già si avviavano, innalzando calice e croce, verso l’altare, salmodiando preghiere che tali non erano. Li affrontò e li fermò Predolinu, il campanaro. In quella lontana notte di Natale, Predolinu realizzò la profezia evangelica che vuole siano i poveri di spirito a possedere la terra. I due ubriachi tornarono indietro. Come per miracolo si elevò allora solenne, armonico, nessuna voce stonata, l’Adeste fideles.