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L’Ortobene
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Francesco Mariani
Lei era l’acqua è un racconto di Giuseppe Dessì. Qui l’acqua al femminile è presaga, inquieta, resa tale dalla violazione che gli uomini hanno fatto del patto con la natura, nel segno di quanto una volta disse l’astrofisica Margherita Hack: «A furia di devastarlo ce lo siamo giocati il nostro meraviglioso pianeta terra».
Il racconto di Giuseppe Dessì recupera a narrazione favole paesane, dicerie, pure la funzione del riso che si oppone al pianto. Le donne, in un rovescio del ballo dell’argia, fanno cerchio intorno a quest’acqua generata dal tempo magico. Diventano poi janas e deinas, appunto presaghe quando l’acqua si intorbida. Sas janas-deinas sentono che si avvicina forte temporale e non possono fare niente per impedirlo. Non serve più la preghiera esorcistica, neppure la più potente: Sas taulas de Moisè.
Quel giorno del 18 novembre 2013, passato alle Annales con il nome con cui fu battezzato il ciclone, Cleopatra, si scatenò l’uragano. Il tempo diventò temporata, disabussu, dilluviu. Al mio paese una così non la ricordavano dae sa temporata ‘e Pristigale, notizia che si perdeva nella notte dei tempi. In tutta l’Isola fu diluvio universale. Al mio paese, come in tutti i paesi e città della Sardegna, l’uragano aumentò e come all’improvviso una vena secca di fiume tombato si animò d’acqua ribollente, emerse, prima fiotto poi rivo a muggito di bue erkitu e poi più forte muggire, acqua sporca, fango, piena rotolante, sa unna. Travolgeva case e strade, legno, pietre, ferro, il fango produceva altro fango, unu mare de lutu che precipitava dall’alto.
Era destino per Giovanni, mio coetaneo, classe 1951. È toccato a Giovanni ma poteva capitare a chiunque. All’ora del formarsi della piena Giovanni era nella sua campagna un poco sotto Sa Piskina ‘e S’Elike. Cielo tetro. Tronos e lampos, su carru de Deus. Continuava a piovere. Giovanni sentì rumori in lontananza. Comprese che era un’alluvione. Giovanni salì sul sopra il tetto della casa di campagna, adesso meno che rudere, non è rimasto neppure il pavimento. Facendosi riparo con la mano, Giovanni scrutava la piena che sentiva arrivare. Era come se volesse sfidare l’acqua.
Sono passati undici anni. Quel fare subito sera, iskurikare chizzo, del 18 novembre 2013 veniva dopo una notte intera e un altro giorno fatti solo di pioggia, acqua fitta e troposa, troppa, senza interruzione. In paese, in tutta la provincia e nella costa, nell’Isola intera, si vedevano i danni già fatti e quanto senza soluzione di continuità era davanti agli occhi: tetti scoperchiati, cantine allagate, macchine galleggianti, corpi ingoiati dalla piena e dalla melma, frantumati dalla pietra e altri detriti.
Giovanni stava sul tetto della casa di campagna a scrutare come sulla tolda di una nave. Forse intuiva, forse sapeva come la piena si stesse formando a Sas Lapias sotto l’altipiano di San Giovanni, le pozze secche come la vena che le alimenta che adesso l’alluvione rivitalizzava a misura d’orco. Le acque che proprio a Sa Piskina ‘e S’Elike, a Iskiozza, confluivano a Rivu Mannu, ingrossavano nel giro di pochi secondi, pietre, tronchi d’albero, querce, sugheri, lecci e noci, castagni agresti, sambuchi e ciliegi, tutto quello che l’alluvione trovava al suo passare: sterpaglia e distese di rovo, tuppales e buscu. L’alluvione si prendeva la spazzatura buttata lungo fiumi e torrenti, plastica e vetro, cose marcite e altre che più passa il tempo più diventano difficili da smaltire. Tutto a fare piena grossa. La massa d’acqua e fango si mangiava greggi e mandrie, sradicava alberi secolari, rotolava giù fino a che in qualche strettoia iniziavano a formarsi le dighe, ancor prima della terra di mezzo. Dove prima c’era lo splendore dell’acqua adesso è un ossario, tutto secco, un disastro permanente, il livello della catastrofe segnato nel punto sin dove arrivò la piena il giorno di Cleopatra, dieci metri e più sopra il piano terra. Dove c’era lo splendore del paesaggio restano fili di corrente qua e là. Quanto era burgu è diventato fosso di acqua lanosa. Tutto un mare di sterpi e pruno selvatico, di perastro e alaterno. E pietre, molte pietre. Ferule secche. Chi ha potuto ha recintato nuovamente di ferro le proprie terre, chilometri e chilometri di rete metallica, zincata a fresco, a fare doppia fila con quella che è rimasta, piena di ruggine. Come se questo possa servire a fermare la piena quando cala, scende, abbassa. Fosse durata un’ora in più la tempesta e il giorno di Cleopatra avrebbe sommerso anche valli e costoni, tutto quanto era macchia mediterranea e le sue acque: Badu Pretosu, Guore, le pietre verticali di Corror d’ Urchidda, Calavrina, Iscorvì, Sa Lozza, Sa Janna de Ispataelle. Niente fermava la piena. Travolgeva muri antichi e dighe appena formatesi, tappi di immondizia che non ce la facevano a reggere la pressione di altre masse d’acqua e di fango che continuavano a scendere e rotolare. Per sbarramenti appena formati e subito travolti la massa precipitò a basso in un tempo molto più corto di quello che ci si impiega a raccontarlo. La bomba atomica nominata Cleopatra superò in un niente le terre fertili di Golonèo, la pozza che fu verde di Pazzette, Nidu ‘e Corvos, Su tesu de Tzeledda ‘e Ispadi.
Giovanni vide la piena davanti e non ebbe tempo, non ebbe scampo. Fu travolto. Il suo corpo non è mai stato ritrovato. Una dolorosa perdita per l’intera comunità, per il villaggio globale. Difficile persino ricostruire la memoria storica di quell’immane disastro.