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Fa parte del nostro romanzo storico. Scrive monsignor Raimondo Calvisi nel primo dei cinque libri di riti, miti e tradizioni che insieme a Diego Casu stiamo rieditando: «Un ragno velenoso è noto in Barbagia col nome di arza, barja, baglia.
Se nelle campagne, durante i mesi di maggiore calura, il ragno mordeva qualcuno, provocando col suo veleno febbri e dolori atroci, i barbaricini cercavano rimedio nel loro così detto ballu ‘e s’arza.
Una tradizione secolare considerava questo rimedio infallibile contro il morso dell’arza. Si formava un corteo al quale partecipavano, in numero fisso, sette vedove, sette spose, sette zitelle scelte in precedenza: e una più o meno folta folla di uomini destinati ad essere semplici comparse, ma comunque indispensabili anch’essi».
Latrodectus tredecimguttatus, nome scientifica dell’argia, è così chiamato perché presenta tredici punti rossi in corpo nero. Il culto del ballo ha origine prenuragica ma non appartiene solo al mito dei sardi. Fuori dell’Isola, altre nominazioni di quella che per noi è l’argia, arja, aglia sono tarantola o taranta (Il ballo dei tarantolati, punti dall’insetto velenoso, è presente in molto Meridione d’Italia), malmignatta, solifuga perché fugge dal sole, ragno scorpione, ragno volterrano.
Tornando in Sardegna, la maggiore studiosa dell’argia che è pure varja, varza, rimane Clara Gallini, allieva di Ernesto De Martino, che dopo una incessante ricerca sul campo lascia in eredità due opere fondamentali: I rituali dell’argia, 2 volumi pubblicati da Cedam nel 1967 e La ballerina variopinta.
Una festa di guarigione in Sardegna,
Liguori 1988. Tra i diversi film, documentari e finzione scenica, meritano menzione Il ballo delle vedove (1962) di Giuseppe Ferrara, testi di Raffaello Marchi, e il dvd
Il ballo dell’argia (2012), realizzato da Serafino Deriu, il Marghine-Planargia come campo di ripresa.
S’argia, la ballerina, ballariana, variopinta è come una grossa formica «che se provocata ti salta addosso e drizza il suo pungiglione, i suoi pungiglioni»: dicono così molti degli intervistati da Clara Gallini. Lo ripetono diversi informatori. Dolore senza fine è l’effetto. Una puntura che scende negli abissi della prostrazione.
Per questo si fa il ballo, per far uscire il morsicato dalla catatonia.
La danza dell’argia (è il titolo di un libro di poesie di Romano Ruju) allarga a tutta un’altra serie di funzioni e significati. Come una moltiplicazione de sos ballos a tres pizzas di tutte le nostre feste, liete ma pure di sangue. L’argia non è più una. Le arge diventano persone.
«Sono di tutte le età, di ambo i sessi. C’è l’argia bambina, la nubile, la sposa, la sennora, la studiata, la terragna, l’adultera, la preyderissa, la musicante, la gitana, la cartomante, la maga hechizera, la bruja».
Il ritorno però è sempre al centro del ballo, dove sta il morsicato, meno la morsicata.
Ventuno donne, numero rituale, sette nubili, sette maritate, sette vedove fanno il ballo.
Devono riuscire a sollevare lo spirito afflitto, alle soglie della morte, di colui che giace steso per terra, coperto da un sacco o altre pelli, oppure immerso fino al collo dentro un fosso ricoperto di letame, per tenere il corpo al caldo.
Le danzatrici ballano e cantano, lanciano urla, ridono forte, mischiano strofe di senso e nonsense.
« A drinna drinna anca ‘e linna, a drinna drinna anca truncata ».
Così stando nel lecito. Ma c’erano pure una caterva di parole oscene, tutte tornanti in perfetta rima e assonanza.
Sintomatico che il racconto di monsignor Calvisi sopra richiamato torni a una data, il 29 giugno 1926, la stessa cui fa riferimento un altro pezzo di Sebastiano Burrai, compaesano di Rimunnu, pubblicato dalla rivista “Sesuja” nel 1994: Bitti. I rituali dell’argia.
Entrambi i racconti, il primo testimonianza diretta, l’altro ricostruito, sono la cronaca dell’ultimo ballo dell’argia messo in scena a Bitti, quasi un secolo fa.
Il morsicato stava immerso nel letame, le danzatrici portavano al collo campanacci di pecora, ferri di cavallo e di bue.
Il ballo, dice monsignor Calvisi, si risolse in un’autentica carnevalata: vi accorsero molti curiosi e ognuno faceva a gara per lanciare una manciata di letame in faccia del povero malcapitato, che chiuso in un’ostinata apatia si mostrava restio al sorriso.
Quello che invece fece ridere il morsicato e lo portò fuori dall’apatia fu il vedere passare davanti a lui «una vecchia tutta rattrappita che dava il braccio a un uomo con la gamba secca».
Uscito finalmente fuori dal letame con le sue forze, il morsicato, il «ballato» per scherno scagliò una maledizione contro la folla: « Ancu lu ‘acan a bois! » Raimondo Calvisi allarga poi il campo: «Fino al 1930, a Galtellì, ad ogni giro di ballo le ballerine fingevano di voler dare una pedata al “tarantolato”, il quale poi nel corso della cerimonia veniva tolto per tre volte dalla fossa praticata nel cortile della sua casa o nelle adiacenze, e per tre volte rapidamente introdotto nel forno di casa, in precedenza affumato con rosmarino ed altre erbe aromatiche, o con un comune focherello.
A Bonorva e a Tula l’ultimo ballo de s’arza ha avuto luogo circa dieci anni fa (negli anni Cinquanta ndr), con qualche variazione nelle modalità, ma con uguale spirito; invece a Torpé si eseguiva in modo del tutto diverso perché le ventun cerimonianti qualche volta venivano scelte non fra vedove, spose e zitelle, ma erano semplicemente persone dello stesso sesso a cui apparteneva il “tarantolato”, continuava immutata la “musica” degli utensili di cucina eseguita dagli spettatori.
Il ballo poteva durare anche vari giorni». A volte, nel frastuono della modernità, dentro tanti assordanti silenzi di senso del vivere, arrivano sino a noi echi de su ballu de sa varza.