Uno scienziato orunese alle prese con i buchi neri
di Lucia Becchere

6 Giugno 2023

7' di lettura

Ciriaco Goddi, cittadino orunese di 47 anni, ha conseguito la laurea in fisica e il dottorato in astrofisica a Cagliari. Dal 2006 ha lavorato per tre anni all’Università di Harward. Nel 2009 ha superato la selezione per un programma di postdoctoral fellowship (borsa di studio post dottorato ndr) all’Eso (Osservatorio europeo australe) e si è trasferito in Germania. All’Eso ha avuto modo di lavorare per il telescopio Alma in Cile. Dal 2012 al 2021 ha vissuto in Olanda, dove ha ricoperto il ruolo di Project Scientist (coordinatore scientifico ndr) del progetto BlackHoleCam e di segretario del consiglio scientifico dell’Event Horizon Telescope (Eht), lavorando per un progetto congiunto di osservazione dei buchi neri. Da due anni lavora come docente all’Università di Cagliari, ed è ricercatore associato all’Istituto Nazionale di Astrofisica (Inaf) e all’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare.  

Professor Goddi, che cos’è un buco nero?
«Secondo la teoria della relatività generale di Einstein, lo spazio curva su se stesso e il buco nero è una conseguenza estrema di questo effetto di curvatura: se si concentra tanta massa in un volume sempre più piccolo, superata una certa soglia, la curvatura dello spazio diventa tale che chi entra non può tornare più indietro. Per fare un’analogia, il buco nero è come un pozzo senza fondo, se uno si sporge è sicuro, se si sporge troppo cade dentro e non può più risalire. Questa soglia, oltre la quale non c’è più comunicazione col resto dell’universo, è chiamata orizzonte degli eventi. Ecco la caratteristica che definisce un buco nero».

Come si ottiene l’immagine?
«I buchi neri più grandi che conosciamo sono equivalenti a una ciambella vista dalla terra sulla luna (che dista 380.000 chilometri da noi): non esiste una tecnologia che ci permetta di vedere un oggetto cosi minuscolo ad una tale distanza. Per poter osservare questi buchi neri così piccoli necessitavamo di un telescopio delle dimensioni della terra. Non potendo costruire un dispositivo di quella capacità, l’abbiamo “simulato”. Ne abbiamo impiegato tanti piccoli in diversi continenti e li abbiamo collegati virtualmente. Tutti questi telescopi speciali, nello stesso momento riescono ad osservare, ad alte frequenze radio, la stessa sorgente. I dati registrati vengono combinati con delle tecniche usando due super computer, uno in Europa, presso il Max-Planck Institute for Radio Astronomy a Bonn in Germania, e l’altro presso il Massachusetts Institute of Technology (Mit) a Boston negli Usa».  

Nella nostra galassia quanti buchi neri abbiamo?
«In realtà i buchi neri sono il risultato del collasso di stelle massicce, quindi sostanzialmente sono stelle morte. Tali stelle hanno masse una decina di volte maggiori del Sole e in teoria nella nostra galassia ne possiamo avere centinaia di milioni, tutti troppo piccoli per quello che siamo in grado di vedere con i nostri telescopi, quindi abbiamo osservato quelli che noi chiamiamo super massicci, sono degli attrattori che si trovano al centro di ogni galassia».

Come siete arrivati ad avere la prova della presenza di un buco nero? 
«Grazie a questo telescopio virtuale che chiamiamo Event horizon telescope (telescopio dell’orizzonte degli eventi), abbiamo ottenuto la prima prova visiva schiacciante che i buchi neri esistono. In particolare la figura ad anello con un disco oscuro al centro, che vediamo nelle immagini Eht, sta ad indicare il materiale incandescente che orbita intorno al buco nero e che scompare nell’orizzonte degli eventi, mentre la dimensione dell’anello è in accordo con la massa prevista per questi buchi neri, lasciando poche o nessuna alternativa per la loro spiegazione». 

Quante nazioni e quanti scienziati sono coinvolti? 
«Inizialmente erano gruppi che lavoravano indipendentemente. Nel 2014 sono stato assunto come coordinatore scientifico del progetto Europeo BlackHoleCam da un gruppo di tre scienziati che avevano ricevuto un importante finanziamento dal Consiglio di Ricerche Europeo (Erc) per realizzare questo studiosui buchi neri. Nel 2016/2017 abbiamo unito le forze con altri gruppi (americani ed asiatici) ed abbiamo costituito un consorzio internazionale di 300 scienziati distribuiti in tutto il mondo».

Quali le implicazioni sociologiche di questa scoperta?
«Da un punto di vista prettamente scientifico studiare i buchi neri significa capire meglio la forza che domina l’evoluzione dell’universo, che è la gravità. Cento anni fa Einstein formulò questa teoria stramba quando già Newton spiegava i fenomeni naturali “alla perfezione” (come si credeva fino al 1900), mentre la teoria di Einstein ha permesso di capire nuovi fenomeni (ad es. l’orbita di Mercurio) che Newton non spiegava. Ma anche Einstein non spiega tutto quello che osserviamo oggi nell’universo, per cui ci potrebbe essere ancora una teoria che spiega la gravità e quindi l’intera evoluzione dell’universo.

Dal punto di vista sociologico, a mio avviso, l’interesse per i buchi neri risiede nel mistero che racchiudono. Sono anche una sorta di metafora della vita, perché ci ricordano quanto la nostra capacità di conoscere è limitata, nel senso che, passato l’orizzonte degli eventi, noi non possiamo sapere più nulla. L’umanità compie un viaggio a senso unico e chi passa a miglior vita non può tornare indietro a raccontarci cosa c’è. La morte e la vita sono due realtà che non comunicano tra di loro e il buco nero rappresenta questo nell’universo». 

Cosa si prova a stare dietro un telescopio di quella portata?
«Dopo i primi risultati, l’emozione più grande è stata la sensazione di aver fatto qualcosa di epocale e di aver giocato un ruolo da protagonista nella storia. Il nostro progetto è finito nei libri di scuola e tutto il mondo lo studia. I buchi neri, spartiacque fra il prima e il dopo nella storia della scienza, non sono più un qualcosa di astratto ma soggetti astrofisici che abbiamo visto e potuto studiare». 

Quale la frontiera successiva?
«Siamo solo agli inizi. Abbiamo dimostrato di poter fare le prime osservazioni e le prime misure sui buchi neri, ma siamo ben lontani dal raggiungere la fedeltà delle immagini che ci servono per i nostri obiettivi scientifici, in primis testare la famosa teoria di Einstein per capire se descrive veramente l’universo. Inoltre stiamo lavorando per infittire la rete dei telescopi e osservare con frequenze più alte. Nei prossimi decenni miriamo a utilizzare dei satellitiin orbitaper fare questo tipo di osservazioni dallo spazio». 

Come è nata questa passione?
«Sono figlio di un autotrasportatore e di una casalinga, non sono cresciuto in un contesto intellettuale e non ho mai avuto grosse figure ispirazionali. Avevo 17 anni, quando fortunatamente ho trovato nella biblioteca del liceo Michelangelo Pira di Bitti Dal big bang ai buchi neri. Breve storia del tempo di Stephen Hawking, uno degli astrofisici più famosi al mondo. Questa lettura ha influito moltissimo sul mio percorso di vita. Poi ho letto I primi 3 minuti di Steven Weinberg premio Nobel per la fisica 1979. Tutto mi incuriosiva e da quel momento ho deciso di studiare fisica». 

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